Gli I.M.I. (Internati Militari Italiani)

Il coraggio di dire: «No!»

La data dell’8 settembre 1943 segna uno spartiacque per gli Italiani coinvolti nelle tragiche vicende della Seconda Guerra Mondiale. È in quel giorno che il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio proclama alla radio, alle 19 e 42, l’Armistizio concordato con gli Alleati, già firmato il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa (il 29 settembre a Malta verrà sottoscritto l’atto di resa incondizionata dell’Italia). L’annuncio dice soltanto che da parte delle nostre Forze Armate deve cessare qualsiasi atto di ostilità nei confronti degli Anglo-americani e che esse «reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Il riferimento ovvio è alla inevitabile reazione tedesca, ma nessuna precisa disposizione viene data ai nostri soldati che sono colti di sorpresa ben più dei tedeschi stessi, che invece avevano predisposto, già dal mese di luglio, un piano operativo per occupare l’Italia e disarmare le Forze Armate Italiane anche fuori dei confini nazionali.

Qui inizia la tragica odissea di circa ottocentomila (le cifre oscillano dai 725.000 risultanti allo Stato Maggiore tedesco, agli 810.000 proposti dallo storico tedesco Gerhard Schreiber) militari italiani catturati sul territorio nazionale, in Slovenia, Croazia, Albania, Grecia, Isole Egee e Ionie, Provenza, Corsica, deportati nei Lager creati dai Tedeschi in tutta Europa, e sottoposti ad ogni tipo di vessazione perché considerati traditori. Con la denominazione I.M.I. (Internati Militari Italiani) i militari italiani vengono privati dello status di prigionieri di guerra, condizione che, invece, era tutelata dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Per Hitler sono “traditori” a causa del “Patto d’Acciaio” sottoscritto il 22 maggio 1939, che legava militarmente l’Italia fascista alla Germania nazista.

Crediamo sempre alla parola data dai tedeschi circa il rientro in patria. Siamo tranquilli, la tradotta viaggia aperta, con poche guardie (foto del ten. Vittorio Vialli)

Ma l’Italia non è più fascista e si è arresa agli Alleati per por fine alle sofferenze dell’esercito e della popolazione, constatata ormai «l’impari lotta». Al contrario Hitler vuol costringere l’Italia a continuare la guerra e a questo proposito viene liberato Mussolini e si costituisce un nuovo Stato fascista, sottoposto ai Tedeschi, al fine di opporsi all’avanzata anglo-americana.

I militari italiani ristretti nei Lager vengono dichiarati in un primo momento «Kriegsgefangene» (Prigionieri di guerra), ma già il 20 settembre, per ordine personale di Hitler, sono considerati «Italienische Militär-Internierten». Hitler impartisce questo ordine per la considerazione, puramente formale ed ipocrita, che, essendo stata nel frattempo creata la Repubblica fascista di Salò, alleata (in realtà Stato vassallo del Terzo Reich) della Germania e considerata come continuità dello Stato italiano, non è ammissibile per la Germania trattenere come prigionieri di guerra militari di uno Stato alleato, In realtà Hitler vuole invece ricorrere a questo espediente al precipuo scopo di sottrarre i militari italiani alla tutela, all’assistenza, ai controlli della Croce Rossa Internazionale, previsti , come già detto, dalla Convenzione di Ginevra del luglio 1929, sottoscritta anche dalla Germania, per i prigionieri di guerra.

Beniaminowo 1943. Il settore italiano del lager. Molti mesi prima vi alloggiavano prigionieri russi e francesi. Ci dicono che le collinette che si scorgono in lontananza, sono cimiteri, fosse comuni per l’esattezza, dove giacciono decine di migliaia di russi, morti di stenti, di tifo petecchiale, di fame (foto del ten. Vittorio Vialli)

In tal modo i Tedeschi si ritengono liberi di “usare” gli Internati Militari Italiani a loro piacimento e li avviano conseguentemente al lavoro coatto nelle industrie, segnatamente in quelle di produzione bellica ove avevano grandi esigenze di manodopera. La grande maggioranza degli internati viene avviata al lavoro coattivamente, con orari massacranti (10-12 ore giornaliere), in centri industriali obiettivo primario di bombardamenti aerei alleati, in condizioni di alimentazione e igienico sanitarie di pura sopravvivenza.

I Lager contornati da un fossato con filo spinato, sono recintati da filo di ferro e controllati da torrette con uomini armati e sono percorsi da continui pattugliamenti.

Sandbostel. La foto segnaletica per la nostra scheda personale. Quella fattaci in Polonia non vale più e viene sostituita da questa. Siamo definitivamente dei numeri. Il mio è 6168, segnato anche su un piastrino metallico che ci viene consegnato subito (foto del ten. Vittorio Vialli)

I pasti giornalieri: al mattino una gamella di acqua calda con foglie di tiglio, 20 gr. di melassa e 20 gr. di margarina; alle ore dodici il pranzo principale, un’altra gamella di acqua calda con patate e rape da foraggio e 200 gr. di pane nero; la domenica, “sbobba” di fiocchi d’avena con patate e qualche pezzetto di carne. Le bucce di patate e le foglie disseccate di tiglio costituiscono il tabacco per la confezione di sigarette.

Sandbostel. 1944. La distribuzione della “sbobba” in baracca. Operazione estremamente delicata, affidata a persone di tutta fiducia, doveva ripartire la brodaglia con assoluta precisione ed imparzialità (foto del ten. Vittorio Vialli)

Tuttavia, malgrado il duro regime di detenzione, nei Lager degli Ufficiali, separati dai quelli dei Sottoufficiali e della Truppa, spesso gli stessi internati realizzano attività creative e culturali (recite teatrali, piccoli concerti, istituzione di corsi anche a livello universitario, creazione di un giornale).

Contro l’Esercito tedesco, che occupa prontamente tutta la penisola da Salerno in su, comincia a organizzarsi la Resistenza e si forma anche il Corpo di liberazione, cioè il rinato Esercito Italiano del Sud. Però non si combatte soltanto la “Resistenza armata”, che comunque scrive una pagina importante del riscatto della nostra Nazione compromessa dalle guerre di aggressione volute dal fascismo, ma nasce anche una “Resistenza non armata” ad opera dei militari italiani catturati dopo l’8 settembre e deportati in 284 Lager tedeschi. Invece, coloro che in quella data si sono rifiutati di consegnare le armi vengono sterminati, come avviene per i quasi tremila Italiani della divisione Acqui a Cefalonia e per altri protagonisti di episodi di ribellione all’imposizione tedesca.

Dopo i trasferimenti ferroviari, in carri bestiame e ai limiti della sopravvivenza, gli I.M.I. sono costretti ai lavori forzati e al tormento della fame. Una buona parte degli ufficiali, più tardi, sarà costretta al lavoro. L’iniziale desiderio di vendetta dei Tedeschi (direttive del 5 novembre 1943) è mitigato solo dall’opportunità di sfruttare razionalmente la manodopera, ma dal 10 febbraio 1944 la vita degli internati viene resa ancora più dura dall’ordine di Hitler di ridurre le razioni a chi è considerato poco produttivo, applicando il “regime di alimentazione da rendimento”. I reticolati, le baracche di legno, le angherie, il freddo, i pidocchi, la fame, la fatica, le punizioni, le fucilazioni, le impiccagioni accompagnano la permanenza nei Lager fino alla fine della guerra. A tutti gli internati viene proposto il ritorno in Patria a condizione di aderire alla Repubblica di Salò e continuare la guerra con il fascismo e con i Tedeschi. Per la prima volta ai soldati viene concessa una libera scelta: uscire dall’inferno della prigionia, ma sposare appieno l’ideologia nazi-fascista e tradire il giuramento di fedeltà al Re, o rimanere in cattività rischiando ogni giorno la morte.

Beniaminowo. 8 Gennaio 1944. Parla il ten. col. Sommariva, alpino della R.S.I. L’offerta è di entrare nei reparti delle SS tedesche oppure nelle costituende divisioni italiane delle R.S.I.: “Per riscattare l’infamia di Badoglio ed il tradimento della monarchia verso la Germania, ecc… la sola via del riscatto, della dignità, dell’onore ecc… è quella di combattere fianco a fianco con i camerati tedeschi ecc…” (foto del ten. Vittorio Vialli)

Il «No!» della stragrande maggioranza sarà la risposta (da 186.000 a 197.000 il numero degli aderenti alla Repubblica di Salò). Circa quarantacinquemila non torneranno più indietro, altrettanti moriranno dopo il rimpatrio. È sul valore di questa scelta che dobbiamo concentrare la nostra attenzione. Restare nel Lager voleva dire rischiara ogni giorno la vita; al contrario aderire significava tornare a casa, sfuggire alla fame, rivedere i propri cari, potersi curare e anche sperare di potersi dare alla macchia.

Beniaminowo. Gennaio 1944. Ogni giorno due appelli all’aperto che, spesso duravano ore con qualunque tempo. Qui un tipico appello invernale a parecchi gradi sottozero. Si aspetta che arrivino gli addetti al conteggio. Fino a che tutti i circa 3000 ufficiali del lager non risultavano presenti, si doveva aspettare fuori, in riga (foto del ten. Vittorio Vialli)

Perché allora rischiare la vita con il rifiuto, che comportava anche, a causa del rancore tedesco, un aggravio delle già pesanti condizioni di vita? Per opporsi con coerenza e dignità al fascismo che aveva trascinato alla rovina l’Italia e che spalleggiava l’occupante tedesco; per restare fedeli alla Patria con il giuramento fatto al Re e non a Mussolini (il Re il 13 ottobre 1943 aveva dichiarato guerra alla Germania); per non collaborare con i nazisti che calpestavano l’Italia, così come avevano fatto con altre nazioni; per rifiutare l’ideologia della violenza e del disprezzo dei diritti umani. Era insomma una scelta cosciente, etica perché ispirata ad alti principi morali, ed eroica perché comportava il rischio della vita pur partendo da condizioni disumane che avrebbero potuto essere cancellate con una diversa decisione.

Sandbostel. Gennaio 1945. Inizia da metà novembre 1944 il trasferimento degli ufficiali italiani in altri lager. Non pochi vengono avviati al lavoro obbligatorio, per lo più a sgomberare macerie ad Amburgo. La maggior parte, 4000 unità viene portata a Wietzendorf; 1000 unità a Fallingbostel. Si separano così molti amici. Nel dicembre le razioni sono drasticamente ridotte, si contano 7/8 casi al giorno di ricoveri in infermeria per TBC, di notte si spara contro chi si reca al gabinetto. La sveglia per la partenza suona improvvisamente di notte e dopo alcune ore di confusione siamo pronti al cancello per uscire dal campo di Sandbostel (foto del ten. Vittorio Vialli)

Per questo si parla di «Resistenza disarmata» o di «altra Resistenza» come la definisce Alessandro Natta: «Nei campi di concentramento, nel lavoro obbligatorio, Ufficiali e Soldati italiani incontrarono, dopo anni di isolamento, gli altri popoli d’Europa, e dall’incontro trassero stimolo e luce per comprendere meglio l’abiezione della dittatura reazionaria degli Hitler e dei Mussolini e conforto e forza per resistere al nemico nel solco della generale resistenza». E ancora: «Il lager faceva giustizia definitiva del complesso del tradimento … Non ho mai avvertito in alcuno, nel lungo periodo della prigionia, né rimorso, né ansia, né vergogna per il rovesciamento di posizione dell’8 settembre. Al contrario, furono portati alla luce tutti i fatti, grandi e piccoli, della prepotenza spiccata e dell’insolente disprezzo dei tedeschi nei nostri confronti; la brutale e assoluta difesa dei loro interessi, il perseguimento accanito dei loro fini senza minimamente curarsi dell’altro … “traditori” ci si avvide che per i nazisti erano i popoli dell’Europa intera». [A. Natta, L’altra Resistenza, Torino 1997, p. 49-51]

Finita la guerra, su questa immane tragedia calò un inesplicabile silenzio. Parve che nella coscienza nazionale fosse avvenuta una sorta di rimozione dell’evento, anche se ben altre furono le motivazioni politiche e sociali che la determinarono. Soltanto l’Associazione Nazionale Ex Internati intraprese un’opera sistematica di ricerca e di raccolta di documenti, che oggi si concreta in decine di volumi, a disposizione degli studiosi.

Ritagli di testimonianze:

«Ecco la stazione, lo scalo merci, il convoglio: carri bestiame. […] Il vagone, nuda scatola nera, ci inghiotte. Qualcuno butta dentro una balla di paglia, giaciglio e sedile per 40 uomini. Siamo in 53. La porta si chiude sull’ultima luce del tramonto. Apro lo sportello di uno dei quattro pertugi, alti, senza vetri, sulle estremità delle opposte pareti. Un prigioniero russo, dal di fuori, inchioda assi attraverso il pertugio, inframmezzandole con il filo spinato. […] Si accosta a una delle porte una cassa di legno, quasi quadrata: il cesso. […] Divisa in due parti la scarsa paglia, metà per mezzo vagone, la stendiamo lungo le pareti.[…] Ci si siede, si accende una candela. Tratto di tasca il pane, lo si mangia asciutto, tagliandolo a fette. Tutti si tolgono le scarpe. Io infilo due altre paia di calze di lana. […] Ci stendiamo, due a due, una coperta sulle gambe piegate, l’altra sulle spalle e sulla testa. La candela viene spenta. La fiammella rapida di un cerino o di un accendisigaro dà risalto, ogni tanto, a quel grumo d’uomini curvi, imbacuccati nelle coperte, la testa cacciata fra le ginocchia. […] È come lo squarciarsi saltuario di un velo nero su una scena bestiale; una specie di «rivelazione» che ognuno ha, attraverso la visione complessiva, della miseria propria. L’atmosfera è gelida: le gambe, il viso, pur coperti, gelano. Ognuno cerca, respirando lungo, a bocca aperta, di scaldare la poca aria sotto la campana della coperta. Si avvolge un lembo attorno ad una gamba e subito l’altra dolora per il freddo e poi anche la prima rigela, e poi una guancia e poi l’altra, e le mani infilate nei guanti chiedono di entrare nelle tasche, di essere chiuse sotto le ascelle. Uno che si alza e traversa il breve spazio fino alla cassa, monta, nel buio, sui piedi, sulle caviglie, magari sulla testa, di quelli accoccolati al centro: grida di dolore si levano, minacce e improperi. Poi riattacca la strascicata sinfonia ferrata delle ruote, lo sbatacchiare dei ganci d’attacco, i cigolii della vecchia scatola che pare sfasciarsi. […] Nevica, largo e fitto. Dentro, le pareti del vagone, sotto agli spiragli, alle fessure e ai buchi, sono coperte da grosse formazioni di ghiaccio». Giuseppe Zaggia, Filo spinato, Venezia 1945

«La baracca conteneva una doppia fila di castelli in legno, a due o tre piani. Ogni posto aveva in dotazione una coperta ed un sacco di iuta con un po’ di paglia che, con il passar del tempo, andava sempre più frantumandosi, fino a che non rimanemmo con il solo telo ed in pratica dormivamo sulle tavole. […] I topi circolavano liberamente; a volte durante la notte facevano cadere gli oggetti, che tenevamo sulla mensola fissata sulla testata del castello. […] Alle 5,30 del mattino uno sgangherato urlo “heraus schnell” era il segnale della sveglia. Dopo qualche minuto dovevamo essere in fila all’aperto». Lodovico Lisi, Appunti di viaggio, Padova 2011

«BENJAMINOWO, 8 gennaio 1944. Un’altra commissione repubblichina, un’altra adunata. Parla S.: il solito invito a tornare in Italia, ad accettare la Repubblica di Mussolini, con l’ammonimento che le nostre famiglie hanno bisogno di noi. Ascoltiamo in silenzio, ma io so che molti andranno, perché la morte ha già fatto la sua apparizione, e la fame durissima e il freddo hanno piegato ancora gli uomini. Resteremo più compatti, forse in pochi, ma non cederemo. Questa è la prima volta, dopo vent’anni, che possiamo decidere di noi. Ogni preoccupazione familiare, ogni timore piccolo è ormai superato nella grandezza della nostra miseria. Da una parte vi è la forza bruta che ha fatto della violenza una dottrina, sicura che la morte e il dolore rendano servi gli uomini, dall’altra, una volontà che non vuol cedere, una libertà che intende pesare di più, con i suoi ideali, delle baionette e della morte. Se cedessimo, io sento che la vita mi sarebbe ormai inutile, e si spezzerebbe la forza che alimenta la mia esistenza: non potrei più credere nella libertà dell’uomo: ogni ideale mi diverrebbe ombra inconsistente, l’uomo stesso un ultimo rampollo di antiche scimmie. Bisognerà morire, ma non cedere. Compagna mia cara, che forse piangi sulla mia lontananza, veglia sul nostro bambino: e se io non torno, insegnagli tu ad essere uomo, come non lo siamo stati per venti anni, ma come lo saranno in questa deserta pianura polacca questi italiani smagriti e stracciati». Carmelo Cappuccio, Uomini e tedeschi

«Ci hanno impiegati in ogni tipo di lavoro, senza limiti di orario, con qualsiasi condizione di tempo, pioggia, vento, neve, senza assistenza sanitaria, con un trattamento minimo solo per la sopravvivenza». Lodovico Lisi, Appunti di viaggio, Padova 2011

«Lettera da casa. A Carlotta stanno spuntando quattro dentini e ha imparato a dire: “NO!”. Anch’io ho imparato a dire: “NO!”, ma c’è voluta una guerra mondiale». Giovannino Guareschi, Lettera da casa

«Misi piede nello Stammlager di Dortmund con un senso di terrore addosso. Conteneva circa 3000 prigionieri di ogni nazionalità. 40 sentinelle montavano continuamente la guardia. Tutto cintato di filo spinato, era suddiviso in tre Lager: Lager A per i Francesi; Lager B per i Serbi; Lager C per Russi e Italiani. Vi erano inoltre le infermerie, se pure si potevano chiamare così: una per (ogni nazionalità) […]. In esse venivano ricoverati i più gravi tra i malati provenienti dai campi di lavoro, o meglio, quelli che venivano trasportati prima che morissero nel loro campo. Spettacolo desolante e raccapricciante queste infermerie di Dortmund. Erano vecchie baracche di legno, tutte sconquassate dal tempo e dai bombardamenti, dove l’aria filtrava da ogni parte. Erano circa 700 i ricoverati italiani e dormivano su tavolacci, su castelli di legno, molte volte due per cuccetta e avevano due leggere coperte da campo a testa per ripararsi dal freddo. Il vitto era quello dei campi di lavoro, cioè rape, cavoli, rare volte patate, ma con questa differenza, che qua non lavoravano e perciò non spettava loro che un solo rancio al giorno. Sempre logici i Tedeschi: «In Germania chi non lavora non mangia», mi diceva un medico tedesco. Ma non pensavano che quei malati si erano già rovinati per aver lavorato nel Grande Reich. Altrettanto logici erano i soldati tedeschi, quando ricevevano l’ordine di portare i malati al bagno. Avevano loro detto che dovevano andare tutti, e perciò non c’era santo che teneva, dovevano andare tutti anche i moribondi, i quali naturalmente ritornavano morti, mentre i convalescenti si buscavano la polmonite. […] Mi sanguinava il cuore ogni volta che entravo in quella infermeria; eppure vi passavo quasi tutta la giornata. Vedevo questi poveri Italiani sfiniti, magri a tal punto da poter dire letteralmente che non possedevano più che pelle e ossa. Li vedevo tremanti di freddo, in mezzo alla più squallida miseria, carichi di pidocchi. Consolavo un moribondo e già mi venivano a chiamare per un altro; qua il gemito di un febbricitante, là il rantolo di un moribondo o il pianto di un ammalato che forse pensava alla mamma, e poi era un coro di voci rotto dai singhiozzi: «Padre, abbiamo fame, tanta fame; non vogliamo che un po’ di pane». Leggo nel mio diario. 22-23 marzo: 8 morti in questi due giorni. 25 marzo: vado al cimitero per le sepolture; 20 sepolture in questa settimana. Oggi 4 morti. 29 marzo: oggi 5 sepolture. 3 aprile: oggi al cimitero 11 sepolture. […] Potrei continuare a spigolare dal mio diario, almeno fino al mese di settembre. I medici dovevano scrivere la diagnosi della morte: pleurite, tbc, polmonite, diarrea, nefrite, ecc; ma non potevano scrivere la vera diagnosi: morto di fame e di maltrattamenti. Ho potuto salvare e portare a casa tre quaderni pieni di indirizzi di morti. Sono circa cinquecento. Chi vuole avere una conferma di quanto scrivo, vada a visitare il cimitero principale di Dortmund, dove riposano le salme di ben 730 italiani». don Giuseppe Barbero, cappellano militare nel Lager di Dortmund

«L’ufficiale si era avvicinato alla sentinella e aveva mostrato il lasciapassare, stava per rientrare nel blocco da una visita all’infermeria quando venne trapassato alla schiena da un colpo di fucile del criminale che si era divertito a fare il tiro a segno». Aldo Gal, I sei Lager del n. 28175, Padova 1976

«Il giorno 11 gennaio 1944 separano i capitani dai tenenti e sottotenenti; adunata alle 9, si parte incolonnati per cinque. Le solite sentinelle che alle urla aggiungono calci, colpi di scudiscio o fucile, senza risparmiare qualche fucilata a chi più lento non riesce a stare in colonna; periscono così due capitani anziani. Questo trasferimento fu una vera “Via Crucis”; il mio vagone sembrava una bolgia infernale: urla, lamenti, sintomi di congelamento, dissenteria… I miei stivali, con sotto due pezzi di tavola legati da fili di ferro, ressero a mala pena durante i cinque chilometri di marcia dalla stazione al Lager II B, dove qualche mese prima circa 20.000 russi erano morti di tifo petecchiale». Aldo Gal, I sei Lager del n. 28175, Padova 1976

«All’inizio della guerra pesavo ottanta chili e quando sono stato liberato ne pesavo quaranta». Aldo Locca, Borgosesia (VC)

PRIGIONIERO

Quattrocentoventisei – ottantasette
Non più uomo: numero.
Bucce di marce patate
rape bianche gialle e rosse
– da foraggio, –
margarina minerale
– qualche grammo –
pan di paglia triturata
– segatura d’alti fusti iperborei –
acqua e sale.
Poco perché tu viva.
Troppo perché tu muoia.
Dura,
prigioniero.
Umberto Zanolli, Wietzendorf 1944

Considerazioni finali:

In un contesto attuale in cui non solo le ideologie, ma anche i valori etici, che stanno alla base di una identità sociale e di una convivenza civile, sembrano essere scomparsi, può essere importante richiamare alla memoria questo esempio di coerenza morale. Tenere vivo il dialogo tra le generazioni è indispensabile perché l’oggi e il domani siano sempre improntati alla coesistenza pacifica, alla collaborazione tra i popoli, superando tutti i vecchi rancori e gli attuali pregiudizi. Ricordare questa drammatica vicenda di Resistenza, vissuta con il sacrificio, anche supremo, significa difendere i principi su cui è stata costruita l’Italia repubblicana, che ha voltato pagina rispetto al ventennio della dittatura fascista, così come ha fatto la Germania nei confronti del nazismo.