Radio Caterina è una radio ricevente ad onde medie costruita dagli ufficiali italiani ten. Oliviero, cap. Angiolillo, ten. Martignago, ten. Tarini e ten. Talotti prigionieri dal settembre 1943 al gennaio 1945 nel Lager X/B di Sandbostel in Germania.
Quella che segue è la testimonianza di Carmelo Cappuccio; egli ci racconterà la storia di questa radio clandestina, ma lo farà attraverso la propria personale esperienza, narrando ciò che vide e che udì.
« Voglio cominciare dalla presentazione dei principali attori dell’impresa che dette vita a “Caterina” e poi a “Mimma”, le ultime radio clandestine dei campi di Sandbostel e Fallingbostel; accanto ad essi man mano si affollerà un altro gruppo di personaggi, che concorsero all’ardua opera e ne agevolarono l’attuazione. Tra gli ufficiali venuti da Oberlagen, vi era il s. ten. Oliviero Olivero, un ragazzino smilzo, biondo, con occhi celesti nascosti sotto due ampi occhiali. Su due zoccoli stranissimi e di sua creazione si issava un lacero cappotto, sormontato da un complesso a triplice coperchio, che ad un’attenta osservazione si rivelava composto di un berretto da ciclista inguainato in un passamontagna, anch’esso ricavato da una coperta: il tutto finiva in una specie di cuffia ricavata da un telo da tenda che arieggiava, per la sua foggia, i copricapo olandesi, terminanti in due punte. A convincere che si trattava di un uomo e non di un fantasma, spuntavano dal complesso gli occhiali, con quei due occhi celesti sperduti dietro i cristalli appannati dal freddo. Olivero era il mago della radio e con tale nome lo indicarono sempre gli amici stupiti della sua eccezionale competenza radiotecnica.
Da Deblin era arrivato, prima di Olivero, il cap. Aldo Angiolillo, il moto perpetuo incarnato in un uomo. Gli inglesi lo trovarono con un saldatore in una mano e un martello nell’altra. Fu un realizzatore instancabile. Se non poteva costruire un condensatore di fortuna (ne avrà fatti trecento) pestava su una lamiera, avvolgeva come un ragno 5000 spire di filo intorno a una bacchetta, fabbricava un forno per rimanipolare delle patate, limava con orribile stridore tutti i metalli che gli capitavano. Era lui il sabotatore dei nostri lavatoi, l’affamato divoratore di lastre di zinco, era lui che frugava il campo in cerca di barattoli vuoti. Nessuno ha mai saputo quando dormisse: allorché tutti i suoi compagni furono stanchi del suo fracasso, riuscì a ricavarsi un laboratorio sotto il palcoscenico di una specie di teatro, e lì come una talpa continuò le sue fatiche senza sosta.
Il terzo fu il ten. Carlo Martignago, il più arrabbiato antitedesco di tutto il Campo. Fumatore accanito, avrebbe regalato tutta la sua competenza d’ingegnere idraulico per una sigaretta; ma molte volte sacrificava il tabacco ottenuto a caro prezzo per procurare un raselet, un filo di rame, un manolux, un po’ di ammoniaca. Era il galvanizzatore dei suoi compagni, il più furbo e il più audace. Organizzava e attuava i suoi piani con una intelligenza rapida e meticolosa, tanto più efficace in quanto si nascondeva sotto un atteggiamento impagabile di inoffensivo candore.
Questi tre ufficiali vennero a contatto dopo varie vicende e crearono nel Campo il più formidabile dei triumvirati. Ma prima di unirsi in società, ognuno di essi aveva già svolta nel Lager una interessante azione. Martignago era arrivato a Sandbostel in marzo, con qualche “cicca” e una misteriosa borraccia foderata, dentro la quale, come nel cavallo di Troia i guerrieri, stavano 5 valvole, una serie completa da apparecchio Supereterodina, a basso consumo. Angiolillo era giunto con quattro pile di cui solo tre efficienti, due valvole e una resistenza. Olivero non aveva con sé nulla, fuorchè i suoi magnifici copricapo, sotto i quali vi era però un cervello non comune.
In un primo tempo, Angiolillo avvicinatosi al tenente Torricelli, si era posto con lui al lavoro per la costruzione di una radio. I due avevano potuto ottenere dal sottotenente Cevoli due valvole, che stavano ben nascoste nella borraccia misteriosa di Martignago. Con esse e col materiale di Angiolillo avevano creata una radio a onde medie: utilizzando poi un raselet e un manolux, avevano costruito una cuffia. Così nacque la prima radio nel nostro Campo e cominciò a vivere e a parlare; ma la povera creatura risentiva della povertà del materiale con cui era stata costruita, e se udiva le stazioni tedesche più vicine non riusciva ad andare oltre.
Nello stesso periodo tra la fine di aprile e i primi di maggio, Martignago e Cevoli riuscirono a costruire un’altra radio a onde medie. Anche questo apparecchio non dette buoni risultati, ma le curiose vicende che ne accompagnarono la costruzione meritano di essere ricordate, per il loro sapore comico e per l’abilità che vi appare continuamente connessa. Il lavoro fu molto faticoso: occorreva molto materiale, non tanto per la realizzazione dell’apparecchio, quanto per costruire una cuffia. Dove trovare un magnete e abbondante filo di rame sottile? Una certa quantità di filo si ricavò da sette manolux, in parte avuti in regalo da compagni, in parte acquistati con un po’ di tabacco e cedendo per alcuni giorni la propria razione di pane. Ma il filo era ancora insufficiente e in tutto il Campo non si riusciva a trovarne dell’altro. Fu allora che Martignago iniziò quelle sue imprese da romanzo giallo che lo resero famoso tra noi e caro a tutti i compagni. Egli aveva notato che il sergente tedesco addetto alla misera baracca pomposamente chiamata “infermeria” giungeva nel campo con una vistosa bicicletta munita di dinamo, che doveva perciò avere una certa quantità di filo di rame. La bicicletta a volte restava all’ingresso della baracca, più spesso seguiva il suo padrone nei locali interni. una mattina, dopo vari giorni di accurata sorveglianza, Martignago, mentre Cevoli faceva da palo, si lancia sulla bicicletta con una specie di pinza e un coltello. Pioveva, e intorno si era fatto il vuoto e un profondo silenzio. Con fatica Martignago tenta svitare la dinamo, ma il bullone è arrugginito: allora strappa il filo e si lancia nella sua baracca col prezioso materiale: ricupera ciò di cui ha bisogno, rimonta alla meglio la dinamo, perchè paia intatta, e corre a sistemarla sulla bicicletta dell’ignaro sergente. Così con due barattoli del tonno inviatoci dal Nunzio Apostolico (ce n’erano toccati 24 gr. a testa), del cartone, della cera di catrame, il magnete d’un manolux e il filo di rame variamente raccolto, si iniziò la costruzione della cuffia. Ed era già quasi pronta quando fu travolta da una disgrazia.
Era già sera tardi, ma Cevoli e Martignago avevano la febbre di completare il loro capolavoro. Nella stanzetta 10 della baracca 83, sul tavolo, stavano la cuffia quasi ultimata, delle pile, un manolux; ad un tratto la porta si spalanca con orribile fracasso e due tedeschi si precipitano sul tavolo gridando: “radio, radio”, si impadroniscono di tutto e corrono rapidi dai loro superiori, a farsi belli della caccia compiuta. Rimessi dalla sorpresa i due ufficiali italiani corrono a togliere dal nascondiglio l’altro materiale imboscato e lo portano in salvo dal tenente Vialli; poi, stabilito un piano di condotta per l’immancabile sviluppo della situazione, si stendono sui loro “castelli” e fingono di dormire. Distesi e profondamente addormentati li trovano dopo mezz’ora i due “crucchi” di ritorno, che si ritirano silenziosi sulle posizioni prestabilite, secondo i piani del loro Comando. Ma la baracca restò piantonata tutta la notte.
Il piano concordato era dei più semplici, ma anche dei più originali. Cevoli, l’unico di cui avessero segnato il nome, interrogato dalla Gestapo doveva dichiarare che il materiale sequestratogli serviva per la costruzione di un cornetto acustico per un compagno sordo, il tenente Minestrina. che aveva in realtà un udito più basso del normale: ma ad ogni domanda relativa alla radio doveva soltanto negare, mostrando stupore. La mattina prestissimo, il Cevoli fu prelevato e condotto all’ufficio della Polizei: e lì spiattellò la sua spiegazione. Naturalmente non riuscì a convincere i tedeschi, e allora uno squillo minaccioso di tromba fermò sull’attenti tutto il Campo, mentre vari segugi cercavano e chiamavano a gran voce il tenente Minestrina. Martignago intanto aveva anche lui cercato affannosamente il Minestrina, ma senza riuscirvi: aveva, sì, incaricato i fratelli Betta, nella cui baracca egli abitava, di avvertirlo, perchè facesse il sordo, ma l’avviso, sussurratogli poi dinnanzi ai tedeschi che lo prelevavano, non fu da lui capito. Così il Minestrina e il Cevoli si trovarono insieme, in un serrato confronto, nell’ufficio della Polizei inviperita. È difficile immaginare la faccia del Minestrina quando gli fu chiesto se era sordo e se sapeva nulla di un cornetto acustico. A sentirsi chiamare sordo, dette in escandescenze e gridò di non sapere nulla di baggianate acustiche. Pure dalla scena dovette risultare che un udito proprio normale Minestrina non lo aveva.
I due ufficiali italiani si conoscevano soltanto di vista e al Cevoli imbarazzato non restò altro espediente per sgusciare da quella rete che fare il nome di Martignago. Altro squillo di tromba, altro attenti, e rapido trasporto di Martignago alla Polizei. Egli vi entrò mentre il Cevoli e il Minestrina ne uscivano, e si trovò dinnanzi al sergente Tucek e al Sonderfuhrer, l’interprete spagnolo che dirigeva le indagini di polizia nel campo. Ignorava a che punto fosse giunta l’inchiesta, i risultati dei precedenti interrogatori: gli parve il momento più opportuno per fare una faccia da inebetito. Il Sonderfuhrer parlava soltanto lo spagnolo e il tedesco: da buon poliziotto orgoglioso gli seccava di servirsi del Tucek come interprete, convinto che tutti i suoi fiaschi derivassero dal suo compagno che gli sciupava, traducendo, le astuzie dell’interrogatorio: e cominciò col chiedere in spagnolo al Martignago se intendesse quella lingua. E questi rispose di sì con un gesto. Allora fu un fuoco di fila di domande nella lingua degli “hidalghi”, durante le quali Martignago che intendeva perfettamente continuò a far gesti vaghi di assenso e diniego. E seguitò a far così finchè potè capire a sufficienza quale fosse la linea possibile di difesa: allora si rivolse al Tucek candidamente e dichiarò di non aver capito nulla. Immaginatevi l’ira del Sonderfuhrer e la risata del Tucek, ricondotto alla sua autorità. Martignago spiegò che non aveva osato interrompere prima per non commettere un atto di insubordinazione e che non era colpa sua se non capiva le lingue orientali. Non c’era scampo: bisognò ricominciare da capo l’interrogatorio, attraverso la trafila dell’interprete. Fu così che il Minestrina fu dichiarato sordo ancora una volta, ma come tutti i sordi permaloso: e fu assicurato che il cornetto acustico lo si creava a sua insaputa e gli sarebbe stato offerto solo a costruzione ultimata, se fosse riuscito: e senza offenderlo, ma inducendolo a tenere quel gingillo adatto anche agli individui normali, per sentire a distanza. Tutto ciò veniva detto con grande candore.
I poliziotti erano furibondi: cominciarono a inveire intimando la consegna immediata della radio, minacciando e tempestando. Martignago fingeva di non capire, cadeva dalle nuvole, giocava d’astuzia: lo rilasciarono solo dopo altri cinque interrogatori e lunghe e vane perquisizioni alla sua stanzetta, a quella di Cevoli, ad altre limitrofe. Forse si erano convinti che non era quell’untorello inebetito che poteva spiantar Milano. Ma la cuffia era perduta e con essa pile, manolux e filo, e fu necessario ricominciare da capo. Il che fu fatto, ma con nuove e gravi difficoltà, durante le quali il maresciallo tedesco, che noi chiamavamo Margarina, per la sua mole lustra e butirrosa, e che si era specializzato nel distribuire pugni e calci ai nostri soldati, fu varie volte derubato delle pile della sua lampada tascabile e una eguale sorte toccò al sergente della Wehrmacht che era addetto all’ufficio postale.
Mentre si svolgevano questi fatti, il Campo riceveva ancora notizie da altre due radio, dalla piccola Philips e da “Teresina”. Ma dopo il 28 settembre, la piccola Philips di Gigi Lombardo fu scoperta per un tradimento: “Teresina” rimase sola e divenne molto guardinga, perchè se la spia era stata bastonata assai duramente pure era ancora viva e poteva tornare a tradire. Fu allora che i centri di resistenza del Campo sentirono la necessità di intensificare l’opera di propaganda. Si chiedeva un’azione intensa e continua, anche perchè dopo lo sbarco, che aveva fatto tanto sperare in una rapidissima fine della guerra, l’esercito liberatore sembrava fermo e si profilava all’orizzonte un altro durissimo inverno di prigionia senza riscaldamento e con sempre minore alimentazione. E la tubercolosi continuava a spigolare instancabile. Molti erano avviliti, e di nuovo i tedeschi premevano per il lavoro: già si avvertiva nel Campo una minaccia di sbandamento e, qua e là nelle baracche, qualche ufficiale cedeva.
Allora nacque, per sollevare gli animi e temprarli nella resistenza, quel grazioso e perfetto gingillo che fu battezzato “Caterina” e che stava comodamente dentro una gavetta.
Fu il magg. Dario Santilli a muovere la macchina: un ufficiale instancabile nella sua azione di resistenza ai tedeschi, e che era venuto nei campi di concentramento dopo aver combattuto ed esser stato ferito nella difesa di Roma, dopo l’8 settembre. Gli stava a fianco il cap. Tranquilli che aveva conservato, nonostante la fame, un pugno di acciaio. In breve, dopo varie vicende, si poté raccogliere il materiale indispensabile per la creazione di una radio: fu una specie di colletta, come si fa per la nascita dei bambini poveri. Martignago fornì una valvola ed alcune pile da un volt e mezzo, altre pile le procurò Santilli, e furono così 8 complessivamente. Angiolillo offrì il condensatore variabile e la cuffia della sua vecchia radio, e riuscì a costruire una resistenza con della carta e della grafite: Olivero creò con un portasapone un’ottima bobina. Questo materiale ed altro indispensabile fu consegnato al mago della radio, Olivero, che dopo vari giorni di lavoro e di prova, portò a termine la creazione di “Caterina”.
La sera del 4 novembre la piccina recitò per la prima volta la trasmissione di radio Londra, tra la felicità del gruppo che le aveva dato la vita. Era una creatura piccolissima, sistemata in una esigua cassettina di legno: entrava comodamente in una gavetta, ma aveva un organismo perfetto. Le necessità per mantenere viva e vitale la piccola furono molte, e mentre parlava già per tutto il campo, e svolgeva un’attiva propaganda di cui diremo in seguito, i suoi creatori dovevano assiduamente lavorare a tenerla desta e ad alimentarla, provvedendo materiale, migliorando la sua alimentazione, perfezionando ogni giorno il suo livello di vita. La sera Olivero si chiudeva nel luogo scelto per l’ascolto (dapprima alla 29A, poi dal cap. Develli o dal cap. Malaguti, infine stabilmente nel magazzino di G.B. Talotti) e per lunghe ore viveva con la sua “Caterina”, mentre il Lager era già immerso nel sonno. L’apparecchio è ancora rudimentale ed ha bisogno di un trattamento appropriato. Il misterioso mago si installa nel silenzio della stanzetta: l’antenna sta fra i suoi denti, il suo piede sinistro si alza e si abbassa continuamente, come se egli sognasse di pedalare su ampie vie soleggiate: è l’unico mezzo per variare la capacità e regolare così la reazione. Ascolta in italiano, in francese, in inglese, in tedesco, con perfetta sicurezza: e intanto scrive in una specie di stenografia che intende lui solo. Sono i primi tempi. Intanto, durante il giorno e la sera e la notte, Angiolillo lavora e fornisce i pezzi che gli sono richiesti.
Si imponeva anzitutto il problema delle pile, di molte pile, perché “Caterina”, nata povera, non poteva pensare ad allacciarsi alla rete elettrica. Dapprima si raccolse tutta l’ammoniaca che si poté avere dalla cosiddetta infermeria, dove languivano nella miseria parecchi tubercolotici: ma risultò troppo allungata e quindi poco efficace. Allora si mobilitarono tre chimici del campo, i proff. Balconi e Tarli e il ten. Guerreschi. Costruirono un piccolo laboratorio segreto, dove tentarono invano l’inimmaginabile: l’estrazione dell’ammoniaca prima dall’orina poi dai capelli. Tentativi falliti: e intanto “Caterina” consumava velocemente le pile efficienti e chiedeva aiuto, come un bamboccino invoca il latte per non morire. Il sale c’era, ma sempre in minor quantità perché in quel tempo i tedeschi si avviavano rapidamente alla confezione della sbobba senza sale. I nostri luridi lavatoi perdevano lo zinco, tra l’ira di chi non comprendeva una così strana collezione di quel metallo e le minacce dei tedeschi che ci accusavano di sabotaggio. Ma con tutto ciò non si rimediava all’esaurimento delle pile: e la morte per inedia incombeva già anche su “Caterina”. Allora si pensò ad allacciarsi alla corrente alternata. In tal modo si sarebbe eliminato l’inconveniente delle pile sempre insufficienti, continuamente in esaurimento, tormentoso rompicapo di Angiolillo, che ne costruiva dieci e ne vedeva morire nove, da un giorno all’altro. Con l’utilizzazione della rete elettrica, sarebbe rimasta la sola pila di accensione e la vita di “Caterina” sarebbe stata salvata. Perciò Olivero e Angiolillo si posero all’opera. Bisognava anzitutto raddrizzare la corrente, trasformare cioè la corrente alternata in continua, il che fu eseguito, con la costruzione di un raddrizzatore a valvola.
Ma il problema consisteva nella fabbricazione di condensatori a forte capacità. Martignago fece in quei giorni una vera razzia di stagnola attraverso mille stratagemmi, e di pacchetti di cartine per sigarette: Angiolillo si pose al lavoro e riuscì a costruire vari condensatori, sovrapponendo pazientemente, a centinaia, cartine per sigarette alternate con foglietti di stagnola. Lavorando giorno e notte nonostante la fame e il freddo, i condensatori furono pronti, ma alla prova ci si accorse che potevano servire solo per tensioni bassissime. Bisognava rafforzarli con bagni di paraffina, una sostanza introvabile per gli uomini del Lager: era lo stesso che volere la luna. Martignago pensò allora a dei surrogati: fece un’incetta di candele, ne ottenne alcune dai sacerdoti, e mise a bollire i condensatori nella cera disciolta. Ma fu un fallimento: la cera delle candele è acido stearico e così alcuni condensatori faticosamente costruiti furono irrimediabilmente perduti. Talotti, il cui magazzino era il quartier generale del gruppo, avanzò la proposta di un nuovo surrogato. I tedeschi ci distribuivano ogni tanto dei vasetti di “brillantina”, un lurido grasso che noi adoperavamo per gli scarponi, a ritardarne l’ormai avanzata putrefazione. I vasetti scomparvero e i chimici manipolarono la brillantina per ricavarne la vasellina. Altro tentativo inutile, tanto scarsi se non addirittura nulli furono i risultati. Ed era sempre così, data la miseria dei mezzi: bisognava procedere per tentativi e spesso lavorare invano per giorni e giorni, per veder poi crollare ogni speranza concepita. “Caterina” stava per tacere definitivamente, in un momento particolarmente delicato.
Fu allora che Angiolillo lanciò l’idea di costruire un condensatore elettrolitico. Tutti, compreso Olivero, considerarono l’idea come inattuabile e giudicarono folle il solo tentativo. Se aprite un trattato vi leggerete che la costruzione di un condensatore elettrolitico è difficilissima, si richiedono due piastre di alluminio purissimo, di cui una ossidata, che funziona da armatura positiva, l’altra invece chiamata a provocare il contatto. Tra le piastre deve stare un liquido misterioso di cui i trattati non danno notizie e che funziona da armatura negativa, e ricostruisce continuamente l’ossidatura. Una garza sta interposta fra i due piastrini di alluminio. Si presentavano dunque due gravi difficoltà: trovare dell’alluminio purissimo e scoprire un surrogato del misterioso liquido attraverso varie ipotesi e tentativi. Per l’alluminio si poteva tentare con qualche barattolo di quelli che i prigionieri francesi, gli aristocratici del nostro campo, ricevevano nei pacchi della CR: e così fu fatto, ma il liquido, l’elettrolita, rimaneva sempre un mistero. Pure si volle tentare e Olivero e Angiolillo si immersero negli studi necessari. Sotto il palcoscenico del nostro modestissimo teatrino, Angiolillo si nascose con i mezzi che si poterono realizzare e lavorò a lungo, tenacemente, finché la sua fatica fu coronata dal successo, quando scoprì nel bicarbonato di soda un efficacissimo surrogato del misterioso elettrolita.
È difficile per chi non ha competenze tecniche come me, dire tutte le difficoltà che fu necessario sormontare, difficilissimo poi per chi non abbia vissuto in un Lager di italiani, intendere in quale ambiente si svolgevano tante fatiche. Non aver nulla, assolutamente nulla, fuorché la propria miseria: soffrire la fame fino a svenirne. Ogni giorno, durante i lunghi appelli, 4, 5, 10 ufficiali stramazzavano a terra sfiniti: la tubercolosi avanzava minacciosa e spesso il compagno di castello, un ragazzo pieno di speranze, se lo portavano via, per uno sbocco di sangue. Non avevamo più scarpe, ma ruderi e tronconi di calzature, le coperte erano insufficienti, le stufe spente: fuori si ammucchiava la neve, che si irrigidiva la notte in lastroni di ghiaccio: da casa non si sapeva più nulla, i pacchi delle famiglie erano ormai sempre più rari. L’Italia, lontana, pareva una terra perduta per sempre, tutta odi, sangue, sventure. I tedeschi urlavano, contavano i nostri sospiri, perquisivano, disprezzavano: ogni settimana si presentava una commissione di borghesi, ci invitava ad uscire dal campo, per raccogliere ciliege, filare la canapa, rimuovere le macerie dalle città bombardate, zappare la terra tedesca, raccogliere nei campi le patate. Resistere, rifiutare ogni collaborazione, era la parola d’ordine: ma pochi potranno capire quanto sia costata la nostra resistenza. In questo ambiente si svolgeva l’accanito lavoro di cui vi parlavo.
Il condensatore elettrolitico venne alla luce e fu tra i più bei regali che allietassero l’infanzia di “Caterina”. Ma un altro splendido regalo le era stato fatto alcune settimane prima. Nel campo, un ufficiale, il cap. Sacripante, aveva un apparecchio a galena: valeva ben poco ma era fornito di un’ottima cuffia. Dopo varie vicende, essa passò definitivamente in possesso del ten. Calcaterra, e servì ad ascoltare le parole di “Caterina”: ne fu l’ossigeno sino al giorno in cui Calcaterra, partendo per Wietzendorf (23 gennaio ’45), portò con sé il prezioso talismano. Ma tre giorni dopo gli ultimi mille ufficiali rimasti nel Lager di Sandbostel furono trasferiti anch’essi, e “Caterina” li seguì nella nuova odissea di Fallingbostel.
Come era organizzata la difesa di “Caterina” dai mille pericoli che la minacciavano? Credo che mai si sia creata in America, intorno ai piccoli figli dei miliardari, ai tempi dei rapimenti dei “gangsters”, una così accurata e meticolosa difesa. Si aggiunga che la protezione doveva essere silenziosa e dissimulata, e che nessun pagamento di taglia avrebbe potuto salvare la piccola Caterina una volta requisita.
Immaginiamo, anzitutto, di entrare una sera nel magazzino di Talotti alla baracca 69. Tutti gli elementi, le preziosa membra di “Caterina” stanno su una coperta: il filo che la allaccia alla corrente pende dall’alto, Olivero ascolta. Nella stanzetta vi è di solito Martignago in un angolo: spesso fa da terzo il Talotti. Fuori, nei luridi gabinetti, vi è una catena di sorveglianza affidata a Calcaterra, a Levere, a Possenti, a Cacciolati e ad altri. All’esterno del magazzino, accanto alla finestra fa buona guardia un altro ufficiale. Il servizio si effettua con la pioggia, col vento, con la neve, sempre. Se nel campo entrano dei tedeschi, la catena avverte accendendo dei fiammiferi: l’ufficiale di sentinella ai gabinetti ne muove uno da una finestra prestabilita. L’allarme arriva al magazzino, con tutte le precisazioni del caso: se i tedeschi son due, se molti, se della polizei, se vi è Tecek il sergente pericoloso. Quando la minaccia è grave, l’ufficiale di guardia dietro la finestra bussa alla baracca, chiamando “Federico”. Allora il filo viene staccato con un rapido strappo e la luce ad un tempo si spegne, la coperta raccoglie e fascia le membra di “Caterina”, l’involto esce dalla finestra ed è accolto nelle braccia della sentinella, che scompare con il dolce peso, abilmente trasferendolo, secondo accordi prestabiliti, in un luogo sicuro. Finché si lavorò nel magazzino, era stabilito che Talotti avrebbe assunto su di sé ogni eventuale responsabilità, affrontandone le conseguenze: bisognava a qualunque costo salvare la “Caterina” e Olivero, il mago della radio, senza il quale non si sarebbe potuto ricostruire il gruppo degli specialisti.
Queste le misure stabilite per le ore di ascoltazione. Ogni notte poi, quando “Caterina” cessava di parlare, le sue membra venivano separate: ogni parte della radio entrava in gavette, o in piccole borse, e vari ufficiali si avviavano guardinghi, alla chetichella, in giro per il campo, per vie diverse, a portare il piccolo bagaglio loro affidato ad altri ufficiali che attendevano in varie baracche. Questi, dopo un breve tempo, a loro volta uscivano e recavano in luoghi prestabiliti, ad altri compagni, il frammento di “Caterina” avuto in consegna. Allora soltanto, ben nascoste, le membra staccate posavano, in un sonno sereno, fino alla notte successiva. Così la rete difensiva, a catena verticale e mai orizzontale, impediva le sorprese e annullava le piste. Ma credete che tutto ciò abbia impedito le ore di pericolo? Bisogna considerare la possibile distrazione di una sentinella, la malattia di un ufficiale addetto alla guardia, la stanchezza, la difficoltà di resistere per ore all’aperto, in certe serate di gelo nordico, quando ogni raffica di vento si divertiva con gli stracci in cui era avvolto il povero piantone. E bisogna anche pensare a qualche sera di audacia rapidamente punita.
Una notte ci si trovò con un tedesco dinanzi alla finestra, e il materiale infagottato nella coperta non poté uscire. Era stato appena rapidamente nascosto dietro alcuni bidoni d’acqua, quando entrò Tucek spalancando la porta. I tre fingevano di chiacchierare tranquillamente: Tucek perquisì sommariamente, ingannato da tanta serenità, e non trovò nulla. Un’altra volta, per la fitta nebbia, Tucek riuscì ad arrivare alla stanzetta senza essere preannunziato: fortunatamente non vi erano state spie ed egli non aveva sospetti. Olivero ascoltava in un angolo, dietro un castello, con la cuffia; il filo pendeva dall’alto. Solo dei nervi di acciaio permisero la salvezza. Il mago rimase immobile, continuando ad ascoltare, Talotti invece, unico apparente inquilino del locale, iniziò una serrata conversazione col Tucek e insensibilmente, coprendo Olivero, lo trascinò verso la porta per mostrargli dei guasti compiuti dagli ufficiali nel corridoio della baracca. E Tucek, dopo aver minacciato punizioni gravissime per quei danni all’impiantito, se ne andò tranquillamente, senza che l’ascoltazione fosse interrotta.
Come si diffondevano le notizie di “Caterina”? Una copia del notiziario veniva consegnata al ten. Emilio Giordano, che la recapitava al Centro Propaganda, che ignorò a lungo donde venissero le informazioni. Capalozza e Pisani pensavano a diffonderle per il campo, comunicandole alle baracche degli ufficiali provenienti da Oberlagen: di lì esse si diffondevano da se stesse fra tutti gli ufficiali. Un’altra copia la tratteneva Martignago, che ne dava la lettura ad alcuni amici fidati. Solo nei primi tempi si fece una terza copia per il maggiore Santilli, che però in breve si estraniò dall’organizzazione a cui aveva dato il primo impulso. Nel campo non dovevano esistere altre copie: anche queste due venivano distrutte subito, appena assolto il loro compito.
Già da tempo Martignago aveva a sua disposizione un ufficiale che, fingendo di essere d’accordo con la Gestapo, informava invece il gruppo di tutto ciò che riusciva a sapere. Una e vera e propria organizzazione di controspionaggio. Senza entrare in particolari inopportuni, accennerò ad alcuni avvenimenti collegati al nostro argomento e alla vita del campo XI B. I tedeschi sapevano che tra gli ufficiali del Lager circolavano le notizie di radio Londra: convinti che vi fosse un apparecchio si accanivano a perquisire. Era necessario deviare l’attenzione e i sospetti. L’ufficiale addetto al controspionaggio fu incaricato di far sapere ai tedeschi che le notizie giungevano per opera dei loro stessi soldati che entravano la mattina per l’appello. Allora si vide un fatto nuovo. La mattina i “crucchi” adibiti al controllo entrarono inquadrati, e non fu loro permesso di rompere le righe finché noi tutti non fossimo in fila per l’appello. E quando questo lungo tormento era finito, i tedeschi erano subito in fila e se ne uscivano in drappello, rigidamente inquadrati, come soldatini di piombo. Così era evitato ogni contatto: ma le notizie continuavano a circolare. Allora col solito mezzo fu spiegato ai tedeschi che le notizie giungevano ugualmente attraverso i loro sottufficiali che tornavano nel Lager dopo l’appello per ragioni di servizio e si recavano a volte in qualche baracca per commerciare. Fu così che molti sottufficiali furono inviati al fronte, e sparirono dal Lager italiano il “gobbetto”, la “zampa di legno” ed altri caratteristici graduati: al loro posto vennero dei rigidi e provati sottufficiali, che accrebbero i nostri tormenti. Pure, le notizie continuavano a circolare e il comando tedesco, impensierito, ricominciò le perquisizioni e le indagini. L’attenzione tedesca fu allora deviata sui prigionieri russi che trascinavano tristamente il carro M, una lurida botte che schizzava la materia graveolente che veniva a raccogliere varie volte al giorno dai nostri gabinetti. Fu un cattivo servizio che noi facemmo involontariamente ai nostri soldati. I russi non entrarono più nel nostro campo: trascinavano il carro sino alla porta d’ingresso, e lì, alla presenza delle sentinelle, lo lasciavano in un rettangolo chiuso da reticolato, dove poi lo andavano a ritirare i soldati italiani nuovamente incaricati dell’orribile servizio: e il carro M, riempito di ammorbanti sozzure, tornava poi nel rettangolo donde era stato prelevato e dove i russi si recavano poi a riprenderlo, per trascinarlo nelle grandi fosse di scarico aperte nella campagna dinanzi ai nostri reticolati. E questo flusso e riflusso del carro M si ripeteva varie volte durante tutta la giornata.
Le notizie continuavano a circolare ugualmente, com’è naturale, e le perquisizioni fioccarono senza sosta. Tra l’altro, una terribile fu eseguita il 27 gennaio del ’45 alla baracca 67 e alla 65: i pavimenti, le pareti, i tetti furono quasi disfatti da squadre della Gestapo, che si accanirono per una giornata sulla nostra povera miseria, mentre gli ufficiali inquadrati attesero al freddo che tanto scempio avesse termine. Ma i “crucchi” non si accorsero che Olivero e Talotti erano riusciti a fotografare la loro opera di devastazione, a ricordo della crudeltà impotente dell’ormai moribondo terzo ed ultimo Reich.
Intanto si stava effettuando quasi settimanalmente la partenza di scaglioni del nostro campo per il Lager di Wietzendorf. I tedeschi spiegavano il trasferimento come avvio di tutti gli ufficiali per il campo che avrebbe dovuto impiegarci nel lavoro obbligatorio: ma noi sapevamo che il nostro Lager doveva ospitare altri infelici, come poi avvenne, quando fu riempito di deportati politici che vi trovarono la morte a migliaia. Tutti i miei compagni ricordano con raccapriccio quale tormento fosse per tutti ogni nuova richiesta di contingenti per questo trasferimento. Il prigioniero teme ogni mutamento di luogo e di compagnia e, nonostante le miserie in cui vive, odia le molestie di ogni nuova perquisizione e disinfestazione, delle lunghe marce di trasloco, in cui perde gli ultimi stracci che gli son rimasti e da cui esce scossa gravemente la sua salute.
Maggiore era il pericolo di trasferimento per i nostri radiotecnici, che non potevano essere separati e temevano inoltre per il materiale. Il Comando riuscì a proteggerli per molto tempo e ad evitare in vari modi la loro partenza per Wietzendorf, ma il campo di Sandbostel doveva essere interamente sgombrato e giunse quindi anche per essi, rimasti con gli ultimi mille, il giorno del trasferimento. Ma Wietzendorf era ormai saturo, e così quest’ultimo migliaio di italiani fu diretto ad un altro luogo, a Fallingbostel.
Fu questo il momento epico della canzonatura ai tedeschi. Bisognava assolutamente portare in salvo, attraverso perquisizioni, tutto il materiale. Fortunatamente il tempo concesso al comando tedesco per sgomberare il campo era molto esiguo, e quindi le perquisizioni se furono accurate non giunsero però a quella minuziosità sistematica adoperata nelle precedenti occasioni. Pure fu sempre necessaria molta abilità e audacia. Il materiale era enormemente cresciuto. Tra l’altro, negli ultimi giorni Olivero aveva curato e guarito la “Teresina” di Coppo, che avrebbe dovuto anch’essa seguire il nostro convoglio, e rimase invece nel campo con il cap. D’Avolio, a cui i tedeschi la pescarono e sequestrarono, chiudendolo in carcere. Il materiale, comunque, era cresciuto e bisognava salvare tutto. Pensate che anche una striscetta di nastro isolante era un tesoro prezioso, ottenuto attraverso difficoltà complesse e pericoli. Furono escogitati i sistemi più ingegnosi per salvare il materiale: una parte il meno prezioso, fu suddiviso tra molti ufficiali fidati, il più importante rimase ai radiotecnici e alla loro organizzazione; la radio fu totalmente smontata.
Il cap. Balladori si legò tra le gambe, mimetizzandolo, un trasformatore di tre kg e se lo portò in salvo con la sua solita audacia, fino al nuovo campo. Furono realizzate alcune pagnotte, saltando la propria razione: svuotate con cura meticolosa, richiuse con tasselli resi aderenti mediante margarina, accolsero del materiale. Un trasformatore scomparve in una scatola di lucido da scarpe; un grosso libro, dal titolo “Terra nostra”, di una poetessa friulana, Anna Mandel, subì un lavoro d’intaglio nella parte centrale delle sue pagine poi accuratamente incollate fra loro: così nel corpo dell’opera si nascosero molte valvole; i filamenti metallici furono avvolti in parte su rocchetti e poi ricoperti di filo per cucire; altro filo divenne cilicio intorno al petto o scomparve nelle cuciture delle giacche, dei pantaloni, dei cappotti. Il materiale passò quasi tutto. Solo alcune pile furono sequestrate nella perquisizione. Ma nel precampo scomparvero una valigetta, che nascondeva due valvole, e una cassetta di Tarini, in cui erano imboscate tre valvole ed altro materiale. Ma in complesso anche questa volta i tedeschi furono giocati.
Il 4 febbraio, dopo 5 giorni di sofferenze, giungemmo in mille al campo centrale di Fallingbostel. Il Lager racchiudeva nei suoi reticolati circa venticinquemila prigionieri: inglesi, americani, francesi, migliaia di russi, italiani, belgi, polacchi, iugoslavi, indiani. Un caleidoscopio di nazionalità, una tavolozza variopinta di divise. Eranto tutti soldati: di ufficiali non c’eravamo che noi, vari medici e cappellani, ed alcuni inglesi catturati da poco ad Arnheim. Un giorno vi narrerò la vita di questo campo e vi dirò della pietosa condizione in cui vi languivano alcune centinaia di tubercolotici: ora non voglio allontanarmi dal mio argomento.
Nei primi giorni, la piccola “Caterina” non poté funzionare, per insufficienza della cuffia di cui si disponeva. Allora Martignago si pose in contatto con i soldati italiani del campo che ci avevano accolto come fratelli, e soprattutto con il loro “anziano” Mario Boscaini. Attraverso i suoi buoni uffici, si avvicinò a un allievo sottufficiale, Gitano degli Esposti, che lavorava come meccanico nel gabinetto dentistico dei francesi. Fu lui a fornire una mezza cuffia con un solo auricolare: aveva il filo rotto e il nucleo non era più magnetizzato, ma per noi fu un regalo prezioso. Tarini accomodò rapidamente questo frammento di cuffia: dopo soli quattro giorni dall’arrivo “Caterina” riprese a parlare e da allora, ininterrottamente, fu divulgato un notiziario quotidiano letto da Capalozza e Pisani in tutte le baracche.
Intanto i medici italiani del campo fornirono in abbondanza il più vario materiale: acido solforico, ammoniaca, acqua distillata, stagno, martelli, pinze, forbici da lamiera, scatole di cera, petrolio. Tanta insperata ricchezza spinse Olivero e Tarini a dar realtà ad un sogno lungamente carezzato e che era sempre restato tale nonostante alcuni precedenti tentativi. “Caterina” non andava al di là delle onde medie: si voleva creare un apparecchio che captasse anche le onde corte. I due radiotecnici si posero all’opera e rapidamente costruirono una nuova piccola creatura che chiameremo “Mimma”. Angiolillo al solito partecipò attivamente a questa nuova creazione e costruì allora una impedenza servendosi delle “reggette” dei pacchi della CR americana e avvolgendo intorno ad esse 7400 spire di filo sottilissimo. Nel campo di fallingbostel, al tramonto, i tedeschi toglievano la luce ed era quindi impossibile servirsi della corrente elettrica per alimentare la piccola “Mimma”. Fu necessario tornare alle pile.
In quei giorni Tarini pensò alla costruzione di batterie anodiche servendosi della pila di Volta. Sovrapponeva monete di rame alternate con dischi di zinco prelevato dai lavatoi e dischi di tessuto sforbiciato dalle nostre coperte e imbevuto di acido acetico. “Mimma” spodestò “Caterina”: era un po’ più grande e meglio nutrita, ma aveva due valvole, funzionava magnificamente. Non stava più in un gavetta come la sua sorella, ma occupava anch’essa poco posto. Fu la nostra formidabile compagna negli ultimi durissimi mesi e svolse un’azione di propaganda che andò anche al di là del gruppo dei mille ufficiali italiani.
Il 16 febbraio, per far posto a dei nuovi prigionieri inglesi, fummo trasferiti dal campo centrale ad una sua dipendenza distante un chilometro: il Lager G, forse il più lurido dei campi in cui siamo vissuti. Le quattro baracche di cui era composto avrebbero potuto, a stento, contenere duecento ufficiali: vi fummmo insaccati tutti e mille. Dormivamo per terra, utilizzando lo spazio fino all’assurdo, e i piedi di ognuno giungevano fino al volto del compagno che gli dormiva di fronte: bisognava adagiarsi su un fianco, perché non vi era posto per dormire supini. Solo tre stanzette avevano alcuni castelli: e vi collocammo gli ufficiali superiori e il gruppo radiotecnico. Al di là del nostro reticolato si apriva, da levante, un piccolo Lager di lavoratori francesi e iugoslavi e, da ponente a nord, un gruppo di baracche occupate da famiglie ucraine. Il Lager G dipendeva per tutti i servizi dal campo centrale, ed aveva sul posto, oltre le numerose sentinelle, un maresciallo, Wördel, e un sergente, Welding.
In questo sudicio Lager, il servizio di “Mimma” fu ripreso subito e perfezionato. L’ultimo giorno di dimora al campo centrale, Martignago aveva ottenuto da un ufficiale un accumulatore: era completamente solfatato e secco da molto tempo. Angiolillo lo sottopose a lavaggi di ammoniaca e pazientemente lo rimise in efficienza, perché rendesse possibile l’utilizzazione dell’energia elettrica concessa dai tedeschi soltanto in alcune ore del giorno.
I radiotecnici occuparono la stanzetta Federici, accanto agli ufficiali superiori. Sotto la inutile stufa, fu scavato un buco: la scelta del nascondiglio aveva uno scopo: la stufa con la sua massa di ferro e di ghisa avrebbe ostacolato, se non impedito, le perquisizioni con ricercatore elettromagnetico che si sapeva sarebbero state fra breve tempo compiuta da apposita squadra della Gestapo di Amburgo. Il materiale stava in scatole di latta appositamente costruite, per evitare gli effetti dell’umidità del nascondiglio. Due fili sottilissimi, derivati dall’impianto della luce, giravano per la baracca, nascosti dentro l’incastro delle tavole paretali e finivano in due chiodi a cui stavano regolarmente appesi dei berretti. Il posto letto di Olivero e Martignago era in un angolo, il cosiddetto angolo sotto tensione.
La sera alle 22:23, la piccola radio “Mimma” veniva montata: si accendeva un lumino servendosi del petrolio contro le piattole fornito dall’infermeria: e cominciava l’ascoltazione. Prima parlava radio Londra nelle varie lingue, poi alle 22:30 si captavano le trasmissioni in onde corte della stazione “Italia Combatte”. Tutto veniva stenografato, con il solito sistema, da Olivero: subito dopo si procedeva alla trascrizione in chiaro con carta carbone per averne tre copie. Il freddo era pungente e non bastavano le coperte sotto le quali si nascondevano Olivero e Martignago. Il lavoro finiva all’una di notte: dopo di che la radio veniva smontata e tornava nel suo nascondiglio. Ma non era ancora possibile abbandonarsi al sonno: bisognava preparare tutto il necessario per ricaricare durante il giorno le batterie, perché, come ho già detto, i tedeschi toglievano la corrente al tramonto, e raramente si ebbe di notte la luce: il che divenne sempre più grave con l’intensificarsi, di giorno e di notte, degli allarmi aerei. Al primo accumulatore, di cui ho già accennato, se ne aggiunsero intanto altri due e il servizio divenne così sempre più efficace.
Per la visita medica gli ufficiali ammalati dovevano recarsi al campo centrale: ogni mattina, alle 7, si formava una fila di ufficiali. Le sentinelle, dopo aver contato e ricontato, se li mettevano in mezzo, e la schiera si avviava trascinandosi sugli zoccoli. Martignago era sempre nell’elenco dei malati. In tal modo giungeva al Lager principale portando con sé due copie del notiziario: una la consegnava ai medici italiani perché i ricoverati nell’infermeria avessero il conforto delle notizie, un’altra andava nelle mani di Gitano degli Esposti che con l’aiuto del serg. Formenti ne ricavava due copie in francese. Di esse una andava ai soldati italiani del campo, ai quali era detto che le informazioni provenivano dai francesi, l’altra copia veniva consegnata a monsieur Bacci, un prigioniero francese che se ne serviva per completare il bollettino preparato dai suoi connazionali. Perché nel campo centrale i francesi avevano qualche radio, ma collegata alla rete elettrica, e che quindi non funzionava neppure di giorno, per la sorveglianza tedesca.
A richiesta, una copia veniva preparata per un canadese, che la diffondeva in un altro settore del campo. Intanto al Lager G dalla copia rimasta in sede, la terza, ne venivano ricavate, da Talotti e Levere o da Talotti e Guerreschi, altre due: una passava nelle mani del cap. Balladori, che come interprete si recava al campo centrale e la forniva ai polacchi, l’altra era consegnata a Capalozza e Pisani, che la leggevano prima al comando, al ten. col. Guzzinati, e poi nelle varie baracche, ma solo dopo il ritorno degli ufficiali dalla visita medica, in maniera che le notizie apparissero provenienti dal campo principale.
Ogni giorno sul cielo del nostro minuscolo Lager passavano a centinaia le fortezze volanti: e parevano giocattoli d’argento, alte nell’azzurro, in una scia sonora che riecheggiava a lungo per l’orizzonte. Noi pensavamo allora alle trombe bibliche e nella musica dei motori coglievamo l’inno della libertà. Ma più fitti diventavano gli stormi dei superbi velivoli, e più frequentemente i tedeschi ci toglievano la luce. Venne un giorno in cui la corrente non funzionò più; il Lager G non ne aveva bisogno, secondo il maresciallo Wördel, che era il nostro signore e padrone.
Non era più possibile caricare gli accumulatori nel nostro campo, e bisognò recarsi al Lager centrale, dove la luce di giorno veniva ancora concessa, per illuminare gli uffici e alimentare alcuni macchinari. Allora si stabilì lassù, nella stanza del maresciallo Boscaini, una diramazione di due fili ben nascosti, che andavano a finire sotto la branda del soldato Romelli: lì sotto era collocato un raddrizzatore identico a quello già adoperato nel Lager G. Ma bisognava portare ogni giorno gli accumulatori nel campo centrale, caricarli e riportarli in salvo alla piccola “Mimma”. Un problema difficile in cui era necessario tener conto delle perquisizioni che saltuariamente venivano effettuate sui nostri malati, all’ingresso del campo. Balladori e Martignago si legavano gli accumulatori tra le gambe e si avviavano ogni mattina attenti e guardinghi. Una impresa difficile, che a un certo punto fu complicata dall’orario della luce al campo centrale. Gli ufficiali italiani dovevano rientrare dalla visita medica entro le 10:30, e spesso a quell’ora la corrente non era stata ancora elargita dai tedeschi al Lager principale. Fu perciò necessario trovar modo di recarsi al centro anche in altre ore, nel pomeriggio. Da lassù venivano una o due volte al giorno dei soldati italiani, tirando il carretto dei nostri viveri: d’accordo con il ten. Gianny, addetto a quel servizio, Martignago si unì a volte ai soldati e tirò il carro con loro, sfuggendo alle sentinelle. Altre volte fece da ordinanza al seguito dell’interprete Balladori, e se ne andò su con lui, caricato di un pesante sacco. Ognuno di questi stratagemmi era pieno di pericoli, e richiedeva astuzia e coraggio, e consumava le poche energie che ormai Martignago aveva a disposizione. Nelle ultime settimane si teneva in piedi nelle ore più dure con della simpamina fornitagli dai medici italiani e francesi, ma le forze diminuivano ogni giorno.
Una volta il maresciallo tedesco, il piccolo Rommel, come noi lo chiamavamo, si accorse all’uscita che i soldati dei viveri erano aumentati di uno e prussianamente urlando, riuscì subito a individuare l’intruso, che era Martignago. Il maresciallo strillava inviperito, sospettava un tentativo di fuga, voleva sapere, portare a fondo la cosa: come un energumeno prese per il collo la sua preda e la trascinò al comando italiano per i primi accertamenti. Martignago aveva avuto il tempo di riprendersi e dichiarò, dinnanzi alle minacciose insistenze del maresciallo, che non voleva sfuggire ma solo recarsi all’infermeria. Wördel era rosso come un tacchino e continuava a strillare che per la visita medica vi era un’ora stabilita, e un regolare servizio, e che di quello avrebbe dovuto servirsi il prigioniero, e non andarsene a spasso con un trucco, tentando di giocare lui che non era mai stato giocato da nessuno. E Martignago a dire umilmente, che era domenica e che non vi era stata perciò visita, ma che egli aveva estremo bisogno dell’infermeria e occorreva che vi andasse tutti i giorni, senza saltarne nessuno. Il piccolo Rommel non era disposto a convincersi di tanta urgente necessità, che vi fosse una malattia così prussianamente implacabile, da aver bisogno di cure quotidiane, e che il possessore di un simile male potesse camminare come un uomo sano e normale. “Ma che malattia è mai la vostra? e che cure dovete fare” “Iniezioni”, badava a dire Martignago “tante iniezioni” e additava il braccio e il resto del corpo alternativamente, con un viso avvilito. “Che malattia?” insisteva il Wördel, implacabile. Allora Martignago ebbe uno dei suoi lampi geniali e, ricordandosi che per il campo correva la voce, venuta dagli ucraini, che il piccolo Rommel fosse un vecchio conquistatore di facili amori, dopo parole reticenti di vergogna e raccomandazioni di mantenere il segreto, a pezzi e a bocconi, pian piano, esitando, confessò di portarsi addosso i postumi di una vecchia sifilide conquistata in Grecia. Il viso del vecchio si rasserenò. Aveva forse incontrato un compagno: si ricordò degli acciacchi che corrodevano la sua vecchia carcassa, ritrovò la bandiera delle sue antiche e recenti battaglie, e cessò di strillare, improvvisamente addolcito. “Ma anch’io sono un uomo, che diamine! Potevate confessare prima. una malattia così grave, deve essere curata. Capisco, capisco la vostra vergogna: ma non temete: io non parlerò. E intanto vi farò un ausweis, un permesso perchè possiate recarvi all’infermeria tutti i pomeriggi, anche la domenica, e vi darò una sentinella. Vi darò una sentinella!”. Così i tedeschi che non riuscivano a farci collaborare all’economia del grosso Reich, collaboravano essi, involontariamente, alla organizzazione italiana.
Negli ultimi tempi la luce mancò al campo centrale, ed erano proprio i giorni in cui si iniziava l’offensiva anglo-americana sul Reno. Non era possibile che “Mimma” tacesse. Ricordo che un giorno, alle 15:30 gli accumulatori erano scarichi e la corrente non era ancora venuta. La sera non avremmo avuto notizie, e ormai tutto il campo, 25.000 persone, contavano su “Mimma”. Allora Olivero decise la costruzione di pile all’acido nitrico: Martignago col suo ausweis (permesso di transito) si portò la sua sentinella al campo cenrale e lì mobilitò Boscaini, i medici, il canadese, i francesi. Dopo due ore tornava giù con tre bottiglie di acido nitrico accuratamente nascoste nei pantaloni e scortate dalla sentinella “imbaionettata” e passava curvo, trascinando una gamba, dinanzi al vecchio maresciallo, che gli espresse il suo rammarico per quelle dolorose iniezioni che irrigidiscono i muscoli. “Mimma” la sera parlò come sempre e ci disse tra l’altro le parole che attendevamo: “Le Rhin a été franchi!”.
Intanto, già la fama dei nostri radiotecnici si era diffusa tra i prigionieri, e si erano stabiliti cordiali rapporti con i francesi che facevano capo all’organizzazione della “Résistance”. Un giorno Tarini andò su al campo centrale per la visita medica, ma in realtà chiamato dai soldati francesi della “Résistance”: dopo avergli fatto giurare che avrebbe mantenuto il segreto, e avergli raccontata la fine fatta da un loro compagno che aveva parlato, lo condussero in un nascondiglio sotterraneo, dove era una radio guasta, e gli chiesero di ripararla: ed egli la guarì perfettamente. Dopo di allora i rapporti con la “Résistance” si fecero sempre più cordiali: i francesi ci fornirono il loro giornaletto clandestino, ci assicurarono la loro collaborazione, inviarono agli ufficiali italiani il loro saluto e la loro ammirazione per la tenace resistenza di cui avevano dato prova. Due nostri ufficiali, Martignago e Zamboni, entrarono a far parte della loro organizzazione. Non solo: i francesi permisero ad essi di compilare un giornale, dal titolo “Risorgere”, che arrivò al secondo numero e che, tirato in alcune centinaia di copie, fu diffuso, servendosi di lavoratori, tra i soldati italiani di Hannover e di altri centri minori.
La nostra organizzazione era ormai perfetta, e cresceva di potenza e di audacia quanto più si avvicinava la fine del colosso tedesco. Da una radio trasferita segretamente nel nostro lager, perché fosse guarita di un guasto, Olivero e Tarini in quei giorni tolsero la valvola di potenza e iniziarono la costruzione di una piccola stazione trasmittente, che era già a buon punto, quando gli inglesi della 2ª armata raggiunsero e liberarono il nostro campo, assai più sollecitamente di quel che potessimo sperare.
Su al campo centrale, nella stanzetta di Boscaini, Martignago aveva incontrato, un pomeriggio, uno strano sergente delle S.S. Nell’aria vi era ormai l’odore intenso dell’ora dell’espiazione. Qualche sentinella pronunciava parole di condanna alla guerra, altre si dicevano austriache, o alsaziane o boeme: pareva un movimento di fuga in cui di tedeschi non ce ne fossero più. Il sergente parlava l’italiano discretamente e si addentrò in uno sfogo piuttosto lungo e amaro. Diceva di aver dovuto entrare nei reparti delle S.S. per evitare la deportazione del padre e di un fratello comunista, ma di odiare Hitler e la sua guerra ingiusta e violenta. Martignago lo interruppe insinuando che aveva già incontrato sulla propria via molti agenti provocatori e osservando che gli uomini si conoscono ai “fatti” e non alle sole parole. Ma il sergente insisteva, che sempre egli aveva aiutato gli italiani, anche nella ritirata da Roma su Cassino, e che era pronto a dimostrare quante volte avesse passato del pane ai nostri prigionieri, e impedito che fossero puniti e Martignago a ribattere che tali azioni non uscivano dal piano della comune umanità e che di simili ne avevamo compiuti noi stessi, tante volte, verso gli stessi tedeschi. In breve, il sergente si offrì di portare da casa sua nel Lager italiano un apparecchio radio. Chiedeva in compenso difesa e protezione nel momento del crollo e il suo volto si illuminò di gioia quando Martignago, scherzando, gli promise la protezione del partito comunista italiano. Così il sergente chiese ed ottenne una licenza e, dopo qualche giorno portò a Martignago un apparecchio radio a galena ed un’ottima cuffia. Il sergente da allora divenne il nostro strumento, un’informatore utilissimo: da lui Martignago seppe che nel nostro Campo i tedeschi non erano riusciti a crearsi una spia, che squadre della Gestapo sarebbero presto venute a sorprenderci per un’accurata perquisizione; che si avvicinava il nostro trasferimento a Buckenwald. Fu lui ad avvertirci negli ultimi giorni che per carità evitassimo in ogni modo di partire con i tedeschi quando avessero abbandonato Fallingbostel. Ormai riceveva ordini, ma era lento e pesante, come spesso i tedeschi. Alla fine, nel momento conclusivo, aveva perduta la testa: chiedeva a Martignago come dovesse comportarsi, invocava ordini, prometteva una cassetta di pistole. Ma ordini nessuno si sentiva di dargliene, e Martignago si limitò a qualche vago consiglio: che si vestisse in borghese e si nascondesse, abbandonando il suo reparto che si accingeva a sgombrare. Poi si sarebbe esaminato il da farsi. Ma egli voleva ordini, non consigli. Da troppi anni era abituato ad obbedire, non a scegliere col suo cervello: e tra Martignago che lo consigliava e i suoi superiori che gli urlavano degli ordini, dovette sentire più forte il fascino di quella dura disciplina alla quale era ormai costituzionalmente abituato. E scomparve con gli ultimi reparti tedeschi, atomo indissolubilmente legato a una macchina infernale che correva alla rovina.
Il 16 aprile, dopo giorni di febbrile ansia e di rinnovati pericoli, giunsero dinanzi al nostro Lager i carri armati inglesi, e tra la nostra frenesia e i nostri urli di gioia, i vincitori spezzarono i moschetti delle nostre ultime sentinelle e ci restituirono alla libertà e alla vita. Uscimmo, dopo due anni, a camminare per le vie del mondo: e ci pareva che da ogni parte della terra, il cielo, i fiumi ci salutassero come sopravvissuti. Portavamo dentro di noi una fiducia profonda: che il nostro martirio, che la nostra fede nella giustizia e nella libertà potessero valere ad allontanare dalla nostra terra la condanna, le miserie e la rovina a cui l’avevano trascinata vent’anni di dittatura. Ma forse eravamo bambini, eternamente illusi sul trionfo della giustizia. »
Carmelo Cappuccio, Storia di una radio clandestina, in: A. Borelli e A. Benedetti, Uomini e Tedeschi, Milano 1947; ripubblicato in P. Piasenti, Il lungo inverno dei Lager, ed. A.N.E.I., Roma 1983, p. 157-166