Il Museo Nazionale dell’Internamento possiede oltre un centinaio di disegni e dipinti originali realizzati dai Militari italiani all’interno dei campi di prigionia tedeschi. L’importanza di questi documenti è ben evidenziata da Giovannino Guareschi nella Prefazione del libro “Attenti al filo!” di Alessandro Berretti:
«C’era una volta un giovane, ma già illustre pittore, cui madre natura per compensarlo d’una pessima voce aggravata da notevole memoria musicale e da morbosa passione per il canto, aveva regalato una limpidissima vena umoristica. Il nostro eccellente giovane fece la sua brava guerra rischiando spesso la pelle e, riportata a casa la medesima intatta e la giubba decorata di buone medaglie, ci ripensò un poco e concluse: “Be’ in fondo non era poi quello che sembrava lassù”. E afferrata la matita, fermò su grandi fogli i suoi ricordi d’alpino, vestendoli di finissima arguzia; poi riunì in volume i fogli, scrisse sul frontespizio “La guerra è bella ma è scomoda”, e così nacque uno dei più celebri libri d’Europa (n.r.: “La guerra è bella ma è scomoda” è un testo edito nel 1929, frutto della collaborazione tra lo scrittore Paolo Monelli e il disegnatore Giuseppe Novello).
Orbene, accadde che questo nostro eccellente giovane (più illustre, ma meno giovane), incespicò dopo una ventina d’anni in un’altra guerra, e se la fece come la prima volta; e allorché tutto fu finito si trovò un’altra stellina d’argento sul petto e un mitra tedesco dietro la schiena. E quando ci incontrammo in un lager qualsiasi, io gli dissi: «La guerra è bella, ma è scomoda. E la prigionia?» «La prigionia è un’altra cosa» rispose Novello.
Pure facendo parte dell’infernale macchina della guerra, la prigionia è infatti una cosa tutta speciale. Spiegare cosa sia la prigionia è perfettamente inutile: chi l’ha fatta lo sa, chi non l’ha fatta non lo può capire. Esistono delle cose al mondo che non si possono descrivere. La fame, per esempio, è una di queste e lo stesso succede per la prigionia, che è ancora più difficile da descrivere della fame in quanto essa comprende, oltre alla fame, altre cento cose peggiori ancora della fame.
La prigionia, per comprenderla, bisogna viverla. E per ricordarla, bisogna riviverla. Non si può avere l’esatta sensazione di quelle sofferenze ripensando alla vicenda cumulativa. Occorre considerarla tappa per tappa. Niente visioni panoramiche, ma dettagli. Scegliere nei film arrotolati dentro i casellari della memoria un fotogramma solo. Ecco: io seduto sul mio sacco a margine d’una strada. Fango. Scarpe sfondate, piedi bagnati; una grossa vescica sotto il tallone sinistro. Crampi allo stomaco. La sentinella appoggiata alla pianta fumava. Due mesi che non fumavo. A sinistra quella casetta con una donna e un bambino alla finestra. Sei mesi senza notizie da casa. Il compagno davanti aveva l’orecchio destro color violetto. Particolare della scarpa: come farò a rimetterla?
Fissare un particolare: rivedersi in un atteggiamento qualsiasi. Allora si ritrovano anche tutti i pensieri del momento e si rivive veramente una sofferenza. Perché (è un ragionamento persino ridicolo tanto è giusto) un malanno lo si soffre istante per istante e ogni istante è una sensazione nuova che ha già superato la precedente. Noi non possiamo, per fortuna nostra, fare alla fine la sommatoria degli istanti di sofferenza e ottenere la sofferenza totale. In definitiva, agli effetti della classifica finale noi, dopo un anno di fame, abbiamo avuto fame un istante solo. Per avere però il valore esatto di questo istante, bisogna, come si è detto, riviverlo in tutti i suoi particolari e in tutti i nostri pensieri d’allora.
Io credo che sia utile ricordare il male trascorso: ciò aiuta molto a sopportare i mali del presente e permette di ritrovare, tra le sofferenze trascorse, quei pensieri onesti e puliti che solo nella sofferenza possono vivere. Ecco perché io giudico importanti questi disegni di Berretti. Questi interni di lager (nel lager non ci sono esterni; il reticolato non è una siepe trasparente, è una muraglia impenetrabile e insormontabile che vieta l’aria e la distanza) queste scene, queste squallide nature morte sono di così chiara evidenza e vivono talmente nell’atmosfera di quei giorni grigi, che il rivivere le ore della prigionia diventa cosa automatica. Ecco, io ero qui appoggiato a questo spigolo e guardavo un albero carico di neve… Ecco, io durante un viaggio di trasferimento ero raggomitolato in quell’angolo di vagone. Da una fessura vedevo un desolato campo arato.
I critici analizzeranno questi disegni attraverso la gelida matematica delle regole dell’arte. A me il taglio, o i piani, o l’equilibrio delle masse, o l’atmosfera pittorica non importano niente: qui l’artista ha visto esattamente come ho visto io. I suoi occhi erano i miei perché i suoi pensieri e la sua sofferenza erano, allora, i miei pensieri e la mia sofferenza. Il più dettagliato dei documentari fotografici non potrebbe rendere così bene l’idea. Le macchine fotografiche, anche se sono di pregevolissima fattura e con obbiettivo anastigmatico, non hanno figli e mamme da ricordare quando si trovino in un lager. Non hanno fame e non hanno freddo, e il loro occhio vede sempre con implacabile indifferenza. E così pur guardando la fotografia più fedele, noi diciamo che era esattamente così, ma che però non era così. D’altra parte, passando al polo opposto, non riconosceremmo quei luoghi se a ritrarli fosse stato un artista d’eccezione. Egli ci avrebbe data una sua personalissima interpretazione che non avrebbe mai potuto identificarsi con la nostra.
Queste tavole di Berretti contengono quel tanto di verismo e quel tanto di disinvoltura artistica che servono allo scopo. Esse ci presentano i nostri ricordi come già velati da quella lieve nebbia fascinosa che il tempo distende sulle cose del passato. Queste tavole collimano perfettamente con le immagini stampate nella nostra memoria e così, al solo guardarli, le due immagini si sovrappongono e ci ritroviamo senza neppur pensarci, appoggiati alla baracca o accucciati nell’angolo del vagone. Ciò vale naturalmente anche per chi non è stato nei lager. Egli è almeno in grado di vedere con l’occhio del prigioniero. I critici d’arte sorrideranno di questo mio ragionare da uomo semplice: però io son certo che se un critico fosse stato in prigionia, difficilmente avrebbe visto il lager con l’occhio di un Picasso o di un Matisse. L’avrebbe visto con l’occhio di Berretti perché, quando regnano soltanto necessità e sofferenza, gli occhi vedono tutti allo stesso modo, e io ho sentito dei poeti ermetici e dei filosofi d’avanguardia dimenticare Montale e l’esistenzialismo ed esclamare, come noialtri comuni proletari del pensiero: “Ho una fame che mi spacca le budella!”.
Anche per la sezione umoristica la parte artistica non mi preoccupa. Dal punto di vista documentario e rievocativo queste tavole caricaturali sono forse le più efficaci. Tutti i disegni che Berretti ha raccolto in questo volume sono nati nel lager e se talvolta la comicità sembra snaturare un poco il tema doloroso della prigionia, probabilmente significa che la sofferenza dell’artista era allora maggiore del consueto, ed egli cercava di allontanarsi dalla opprimente realtà gettandosi deliberatamente nel parodistico. I disegni di Berretti giravano e proprio sulle tavole comiche la massa rideva di più: e chi in prigionia è riuscito a strappare un sorriso è un benefattore. Quando si riesce a ridere della propria miseria si resiste più facilmente alla fame e alla nostalgia, e laggiù resistere era importantissimo perché si trattava di volontari della fame, gente che non voleva cedere e non ha ceduto agli allettamenti e alle pressioni del nemico.
Le tavole umoristiche rappresentano per me la parte più utile dal punto di vista rievocativo. Gli ottusi poliziotti della Gestapo ridevano su quelle tavole e apponevano ai disegni il timbro lasciapassare. Si divertivano vedendo vecchi colonnelli vestiti come Arlecchini e i giovani brillanti ufficiali d’un tempo alle prese con le mastelle della broda. Non capivano di avallare i più severi documenti della inciviltà teutonica. Sotto quella mascherata di toppe e di nasi rossi, si nascondevano le facce smunte e le ossa scarnite dei novemila ufficiali prigionieri di Sandbostel, o dei dodicimila di Deblin, o dei seimila di Oberlangen o Wesuwe. E gli ambienti e gli oggetti sono ritratti con studiata pignoleria, e a chi possiede una normale intelligenza che gli consenta una lettura la quale non si fermi alla superficie del disegno, queste scene appaiono come una tragica mascherata che aumenta l’orrore del luogo. Il fine giustifica i mezzi: per sottrarre al nemico un documento che interessa, uno può anche travestirsi da Pulcinella.
Se poi qualcuno, vedendo queste tavole caricaturali dirà che, in fondo, si doveva stare abbastanza allegri nel lager, i nostri compagni che abbiamo lasciato laggiù, uccisi dagli stenti, non se ne dorranno. Essi sanno già perfettamente che a ricordarli siamo soltanto noi e i loro cari. Gli altri ricordano soltanto se stessi e, quando possono svalorizzare il sacrificio altrui, provano una gioia infinita. Facciamoli contenti anche loro e aspettiamo tranquillamente la liberazione da questo lager a forma di sfera leggermente schiacciata ai poli. »
G. Guareschi